Giraut de Borneil, Per solatz revelhar
Per destare il piacere
che da troppo è assopito
e il valore sbandito
a casa richiamare
pensai di lavorare,
ma ora ho rinunciato.
Non ci sono riuscito
perché non si può fare:
più me ne viene desiderio in cuore,
più di là cresce il danno ed il dolore.
Duro è da sopportare:
lo dico a voi che udite
che fu gioia gradita
e il bene: ora potete
giurare che cavalle
di legno non vedeste
a villani arricchiti
(che schifo!) cavalcare.
È un brutto affare e cattivo e molesto
se Dio si perde e infelici si resta!
Tornei vedeste indire
e andarvi in grande arnese,
poi dei colpi migliori
parlare una stagione:
ora è un vanto afferrare
pecore da rubare.
Vergogna al cavaliere
che vuole corteggiare,
e ha preso in mano montoni belanti,
e rapina le chiese ed i viandanti!
Per corti andar vedeste
giullaretti ben messi
ben calzati e vestiti
per lodar le signore;
ora non se ne parla,
tanto son rovinati!
Da dove è il torto uscito
che ora ne fa sparlare
non so. – Di chi, degli amanti o di loro?
– Di tutti: inganno gli ha tolto il valore!
Dove sono i giullari
cui vidi fare onore?
Dev’essere guidato
chi soleva guidare,
e non è biasimato,
spento com’è il valore,
chi ora va tutto solo,
e soleva portare
con sé compagni, e non so dire quanti,
bene in arnese e belli e ben portanti.
Io stesso, che chiamare
solevano i migliori,
sono così smarrito
che non so più che fare;
che invece d’allegria
sento in corte berciare,
che piace a loro udire
dell’oca di Bretmar
raccontare così come un buon canto
dei tempi andati e d’imprese importanti.
Ma per scaldare il cuore
che s’è troppo indurito
non son da ricordare
fatti antichi scordati,
perché è male lasciare
ciò cui ci s’è impegnati,
e malattia guarita
non serve più curare:
ma volga e impugni ognuno ciò che ha avanti,
lo prenda e lasci e forzi da ogni canto.
Di ciò posso vantarmi:
la mia casa modesta
non l’hanno mai assalita,
ma tutti ne han rispetto,
e m’han solo onorato
sia i vili sia gli arditi,
e il mio signore eletto
deve perciò pensare
che non gli dà pregio né lode o vanto
se me ne lodo e di lui mi lamento.
Non più pena! Perché? Non domandarmelo:
se finisce così il mio canto è un pianto,
dice il Delfino, che sa i buoni canti.
Testo: Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh, hrsg. von Adolf
Kolsen, Halle, Niemeyer, 1910-1935; cfr. anche Ruth Verity Sharman, The cansos
and sirventes of the Troubadour Giraut de Borneil: a Critical Edition, Cambridge,
University Press, 1989.
Poesia non databile se non all’ultimo ventennio del XII secolo, per via dell’invio
a Delfino d’Alvernia, che succedette al padre Guglielmo VII conte di Clarmont e di
Montferrand nel 1181 e morì nel 1235.
Testo e interpretazione della seconda strofa sono problematici: «mais no podetz
jurar / qu’egas de fust no vitz / ni vilas velhs fronitz / esters grat chavalgar»
(Kolsen, e così sostanzialmente anche Sharman). Le ‘cavalle di legno’ (egas de fust)
sono state intese come ‘strumenti di tortura, cavalletti’ che i villani ‘rovinati’ (fronitz)
cavalcherebbero, ma la sintassi non lo consente, se non a senso, e non vedo
perché Giraut dovrebbe accorarsi per i villani, che da un punto di vista cortese
possono essere nominati solo come oggetto di disprezzo. Secondo Raymond Thompson
Hill, Thomas Goddard Bergin, Anthology of the Provençal Troubadours, 2a ed., Yale
University Press, 1973, si tratterebbe invece di allusioni agli stratagemmi militari e
alle armate della terza Crociata (per somiglianza con il cavallo di Troia, che per la
verità non era una cavalla). Come soluzione provvisoria (che richiede almeno un
ulteriore studio sulla tradizione) utilizzo la lezione del ms. B, che dà senso: «oimais
podetz jurar / qu’egas de fust non vitz / a vilans vieills fornitz / estra grat cavalgar»:
‘potete giurare che non vedeste cavalle di legno (cioè: che non erano cavalle di legno
quelle che vedeste) cavalcare a villani arricchiti (fornitz)», estra grat ‘in modo non
gradito’ (a ‘voi’, a ‘noi’ non ai villani), e cioè si può essere sicuri che si sono visti i
villani arricchiti cavalcare cavalli veri, li si è visti divenire cavalieri. Questa imma-
gine della decadenza dei tempi consuona, non saprei dire se volontariamente, con l’Ec-
clesiaste, 10.7: «vidi servos in equis et principes ambulantes quasi servos super
terram». [29.12.2014]